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Sniper

Pochi mesi prima dell’uscita nelle sale di American sniper, l’ultima e assai discussa fatica di Clint Eastwood, veniva presentato a Roma, alla Casa delle Letterature, da Furio Colombo e Ugo Fracassa, un libro che la stampa francese non ha esitato a definire “insostenibile” (“Livres Hebdo”), “allucinato” (“Le Monde”), “terribile” (Ph.Sollers) e che, con il film  di Eastwood, ha in comune il tema e, in parte, anche il titolo. Si tratta di Sniper, appunto, intenso e agghiacciante romanzo di Pavel Hak, romanziere ceco esiliato a Parigi per motivi politici fin dal 1986, che, dopo aver pubblicato in Francia un testo teatrale (Lutte à mort, Tristram 2004) e altri quattro romanzi (Safari, Tristram 2001;  Trans, Seuil 2006), Warax, Seuil 2009, Vomito negro, Verdier 2011), ha ottenuto riconoscimenti prestigiosi, come il Prix Wepler (2006), la borsa Cnl (2010), il Prix Littéraire des Jeunes Européens (2013). Tradotto in inglese, tedesco, finlandese, ceco, questo Autore comincia ora ad essere noto anche in Italia (Transeuropa ha recentemente pubblicato la versione italiana di Trans). 

E’ un uomo straordinariamente mite, Pavel Hak, e ancora conserva la figura dinoccolata e lo sguardo disarmato di un adolescente. Ciò che scrive è però straordinariamente robusto e quasi sempre non è adatto a stomaci delicati. I suoi libri sondano infatti con scandalosa obiettività il confine (sottilissimo, quasi inesistente) che separa la natura umana da quella ferina e non arretrano davanti ad alcun abominio né si lasciano corrompere da pietà o sentimentalismo. Con frasi secche, brusche interiezioni, impartendo alla narrazione un ritmo serrato e a tratti convulso, egli  va descrivendo, romanzo dopo romanzo, una sua personale geografia dell’orrore contemporaneo. Ha tuttavia una tale forza di sguardo, una tale passione per la verità che la finzione romanzesca diviene per lui un “semplice” strumento di  sovradeterminazione del reale : tale da fare assumere al dettato la risonanza di una necessaria denuncia, di una testimonianza à contrecoeur resa al genere umano: a come tutti vorremmo che fosse, a dispetto di tutto ciò che di male se ne possa pensare.

Da questa presa di posizione scevra da ogni compromesso deriva probabilmente il fatto che il protagonista di Pavel Hak, anonimo cecchino che, insensibile e occulto  come il destino, miete una dopo l’altra le sue vittime, poco o nulla abbia in comune con l’hollywoodiano Chris Kyle. Molte  attenuanti possono essere addotte per mitigare il giudizio su quest’ultimo, che opera protetto da un alibi a stelle e strisce: il dovere, la patria, i codici militari, l’obbedienza gerarchica.  Tutto questo non lo mette al riparo da incertezze e crisi di coscienza – tuttavia è sufficiente a nascondergli che la caccia ai cervi della giovinezza e la mattanza degli iracheni della maturità sono legate da un filo rosso che non è fatto solo di sangue versato ma si alimenta anche di una oscura pulsione delle viscere, come il riflesso condizionato di una sinapsi primordiale che ancora reclama segretamente il suo tributo.  Che poi il fato si incarichi di far la parte della giustizia divina operando di contrappasso con precisione da contabile non è cosa che possa significare alcunché – a meno che non si voglia accantonare per assurdo la prospettiva neoilluminista che fa aggio alla odierna civiltà occidentale.  Non sarebbe la prima volta che Eastwood si compiace di flirtare con il mistero – ma ci sembra che in questo caso si  attenga  soprattutto allo scacco attestato da una singolare biografia, limitandosi a sottolineare l’aspetto beffardo di una cieca casualità.

In tutt’altro contesto si aggira l’ignoto assassino in divisa di Sniper, soldato di un innominato regime che ha deciso di legittimarsi con il terrore e il genocidio, nella convinzione che “uno Stato forte resta impunito quali che  siano i crimini commessi”.  La storia si sviluppa in tempo di guerra, in un paese indefinito, probabilmente balcanico, che ricorda la Bosnia dilaniata dall’odio interetnico. C’è la guerra, certo, ma il nemico parla la stessa lingua del popolo contro cui si accanisce e non servono  interpreti  per tradurre le minacce e le ingiurie che gli uomini in uniforme latrano all’indirizzo delle donne, dei vecchi, dei bambini mentre li seviziano, li oltraggiano e li uccidono con insaziabile  ferocia.   Il regime  ha deciso di piegare la resistenza degli stolti con il terrore organizzato: bisognerà creare incertezza e confusione, convincere le popolazioni a non abbandonare le case – per non far cadere il Paese nella desolazione e nell’incuria – e poi , a sorpresa, saccheggiare le abitazioni, devastare le campagne, massacrare i contadini assieme al bestiame, avvelenare i pozzi, sterminare villaggi interi. Le donne saranno detenute in sotterranei, sottomesse a umiliazioni e a sevizie sessuali, tali da segnarle nel corpo e annientarle nella mente affinché non possano  più raccontare quello che hanno subito. Tutte le armi saranno lecite per piegare la ribellione - sbarre, coltelli, pali acuminati, mazze da baseball, scariche elettriche, celle frigorifere, olio da motore, ferri arroventati- : rimedi tutti somministrati  da militari infoiati dal delirio di onnipotenza che la stessa inermità dei soccombenti ha scatenato in loro.

Nulla ci risparmia la registrazione nitida, ferma, imparziale della prosa di Pavel Hak. Sotto un cielo reso plumbeo dall’inverno, dal fumo degli incendi e dall’odio fratricida, si dipanano storie atroci di violenza e tortura: storie che sembrerebbero frutto di fosca iperbole romanzesca se non ci fossero ancor oggi tanti sopravvissuti, nel mondo, che possono testimoniare di  aver assistito a  simili orrori.

 Proprio a questo mandato sente di dover obbedire il nostro cecchino: poiché la paura spesso non basta a far tacere gli uomini, ci penserà lui col suo fucile a chiudere le bocche.  La sua missione è al di sopra dei qualificativi morali: egli serve lo Stato, e “lo Stato è al di là dell’abiezione”, perché “Lo Stato deve difendersi e la Storia lo prova”. “Tutti fanno del resto appello a Dio per benedirli nella loro guerra”: “Le promesse delle potenze straniere si riassumono nel trittico pace-amore-Dio; le minacce dei fanatici poggiano sullo stesso trittico, appena differente: Dio- odio-guerra.”  Il potere ovunque si arroga il diritto di sovrintendere alla sofferenza e alla morte, dissimulando la sua violenza sotto la ragion di stato. Più diretta e più sincera è la franca aggressività di un proiettile che ti perfora il cranio: più vera e più leale la brutalità del cecchino, braccio armato di un assassino più autorevole.

Il monologo del solitario amministratore di morte guida il lettore di Sniper per molte pagine, attraverso un intreccio di narrazioni che gli fanno da contraltare e raccontano l’infamia dal punto di vista opposto, quello dei perseguitati. C’è una donna, divenuta muta dopo aver assistito all’eccidio  del suo compagno e allo sterminio di quasi tutto il suo villaggio, che guida uno sparuto gruppo di superstiti fuggiaschi verso la frontiera, per  campagne crivellate  dalle bombe e disseminate di cadaveri, attraverso forre ed acquitrini, sotto la minaccia degli aerei e dei rastrellamenti; c’è una ragazzina dodicenne, sua figlia, che scampa di stretta misura agli artigli  di un libidinoso ufficiale; c’è un manipolo di donne che, nel mezzo di una obbrobriosa e orgiastica mattanza, trova la forza di reagire e improvvisa una fuga rocambolesca; c’è un  figlio che rischia la vita per strappare dalla terra gelata di una anonima fossa comune i corpi dei genitori e dei fratelli e se li trascina via su uno sgangherato carretto, in mezzo al fango, per dare loro degna sepoltura, così che al regime non sia data la possibilità di farli del tutto scomparire.  Saranno quei cadaveri  smembrati a “condurre la rivolta dei  morti contro la morte, contro l’ignoranza della morte, e contro la volontà più ignobile che ci sia: la volontà di cancellare gli assassinii perpetrati nella cecità criminale di un’ingiustizia senza limiti”. 

Proprio su quei corpi e sulla loro rivolta Pavel Hak termina il suo viaggio in fondo alla notte. Lascia però l’ultima parola al cecchino: a quel “mostro dell’inumanità” che, rimasto isolato senza munizioni, è finalmente preso dallo sgomento e per la prima volta assalito dalle immagini agonizzanti delle sue vittime. Non sarà tuttavia qualche esangue fantasma a ridurlo al pentimento: questo sniper  si ride della colpevolezza e del giudizio, certo che “la voglia di uccidere è un desiderio primario”, che l’umanità tutta, in fondo in fondo,  si nutra di violenza e stia velocemente correndo verso l’autodistruzione.  

E’ un epilogo che non piacerà ai buonisti e che lascia la bocca amara.  Crediamo però che l’Autore sarebbe soddisfatto se ogni lettore includesse quest’ultima ipotesi tra le possibili eventualità del suo orizzonte d’attesa : solo guardando francamente alla verità effettuale possiamo sperare di trovare rimedio  o soluzione allo stato effettivo delle cose.

Simona Cigliana